di GIANLUCA PISCITELLI
Il “sociologo clinico” oggi può rivendicare la possibilità di muoversi nell’ambito di un quadro teorico ed operativo in cui l’intuizione dello psichiatra George Brock Crisholm – il primo direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il quale, nel 1948, dichiarò felicemente che la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità – è definitivamente corroborata dall’evidenza empirica, dalla ricerca scientifica.
Le esperienze sociali si sedimentano nei corpi determinando la stato di salute e benessere
In questo quadro, le esperienze sociali – intendendo con l’uso di questo termine il riferirsi sia alle relazioni sociali sia gli eventi di vita – che attraversano le biografie degli individui, legandoli vicendevolmente in specifici contesti d’interazione, si sedimentano nei corpi determinandone lo stato di benessere e salute (cfr. di M. Cardano, 2008). Non sarebbero né le profonde e irriducibili differenze genetiche; né gli stili di vita riconducibili alla responsabilità di autogoverno delle persone, ossia alle scelte individuali che queste fanno, a determinare un certo stato di salute e benessere, quanto la posizione sociale. Sarebbe questa a rendere le persone più o meno vulnerabili, cioè ad esporle ad una maggiore o minore probabilità di vivere eventi di vita stressanti o di sperimentare relazioni sociali che innescano la condizione di stress cronico (causa diretta e indiretta di malessere e malattie).
Come giustamente osservato da Cardano (2008:135): “Il meccanismo che traduce le esperienze biografiche, fatte di eventi e di relazioni, nell’idioma corporeo della salute e della malattia attiene alla neurologia dello stress. E’ dunque l’esposizione differenziata degli agenti stressanti (health related stressor) a determinare le disuguaglianze di salute che le nostre statistiche di mortalità e morbosità documentano (cfr. Pearlin et al., 2005)”. A tal riguardo, Vagero (Vagero 1991), analizzando le profonde trasformazioni demografiche ed epidemiologiche che hanno caratterizzato lo scenario europeo del secolo scorso, giunge ad affermare che dette disuguaglianze mostrano una particolare persistenza, un’inerzia sociologica, ineludibile.
Le relazioni sociali, i contesti dell’interazione possono avere una “tossicità” che il sociologo clinico è chiamato a rilevare e a leggere al fine di proporre un intervento che sia il più adeguato possibile, tenendo conto della situazione nella quale opera e delle risorse personali e collettive disponibili al momento.
Considerare la corporeità
Della spiegazione naturalistica o genetica riguardo allo stato di salute e benessere – a tal riguardo, si pensi anche all’approccio sociobiologico con il suo determinismo legittimante lo status quo che riduce individui e gruppi umani a semplici proiezioni dei geni con le loro potenzialità e deficienze – è stata dimostrata la dubbia solidità empirica non solo con riferimento alla lacunosa illustrazione dei meccanismi biologici che darebbero forma alla società (cfr. Benton 1991 e Connell 1987 in Shilling 2003, 46; cit. Cardano 2008:122).
A questa dimostrazione si aggiungano le tante evidenze empiriche, sinora a disposizione, che hanno messo definitivamente in dubbio l’ipotesi di una diversa suscettibilità ad ammalarsi imputabile al corredo genetico che sarebbe specifico di ciascuna classe sociale (cfr. Wilkinson 1996; Kelleher et al. 1990; Mascie-Taylor 1990). Tantomeno si sono dimostrati validi tutti quei contributi teorici ed empirici, volti a ridurre (se non negare) i problemi etici e politici delle disuguaglianze sociali di salute e benessere; studi focalizzati sul capitale di salute, che ognuno di noi riceverebbe in dote alla nascita, e che in ragione del suo ammontare e del modo in cui lo utilizziamo o dissipiamo, condizionerebbe l’accesso a certe posizioni sociali o la discesa verso altre meno vantaggiose, lungo la scala sociale (ci riferiamo, appunto, alla mobilità sociale; per ulteriori approfondimenti si rinvia il lettore ai riferimenti bibliografici citati in Cardano 2008 e Cardano et al. 2004).
Anche le spiegazioni che imputerebbero la responsabilità della salute e del benessere ai comportamenti individuali e quindi alle scelte dei singoli individui, si baserebbero su assunti teorici ed etici discutibili. La salute come scelta: inquadrare l’argomento ‘salute’ nei termini di “una specifica funzione di utilità che ciascun individuo tenderebbe a massimizzare, in piena sintonia con la teoria della scelta razionale” – induce a non tener conto del fatto che – “la salute, molto spesso, è un esito non intenzionale di esperienze – fatte di capacità di agire (agency), ma anche di passività (passivity) – condotte con finalità che non includono la salute fra i propri obiettivi o la malattia fra i propri costi” (Cardano 2008:126). Difatti, anche coloro per i quali il salutismo è una sorta di religione civile, che pone al centro il corpo e la sua integrità, la malattia è un’esperienza qualificabile nei termini di ‘rottura biografica’ (Bury 1982; 2001) che sorprende chi ne fa esperienza (cit. in Cardano 2008: 126-127).
A ciò si aggiunga che l’impatto che le nostre scelte di vita hanno sulla salute e sul benessere può manifestarsi dopo lungo tempo mentre, solitamente, se e quando progettiamo il nostro agire questo lo facciamo considerando orizzonti temporali che – manco a sottolinearlo – si fanno più stretti man mano che si scende lungo la scala sociale. Prima di scomodare concetti come l’inconscio, Eros e Thanatos, dovremmo considerare che la nostra corporeità è espressione vivente di un’integrazione delle scelte operate nel passato, che condizionano certamente quelle attuali. Ma quelle ‘attuali’ dipendono anche da scelte che altri fanno per noi e, più in generale, dal contesto in cui eserciteremmo la nostra ‘scelta razionale’.
I comportamenti che alcuni considererebbero disfunzionali – come l’adozione di stili di vita insalubri e, pertanto, auto-distruttivi – possono non essere affatto l’esito di una scelta bensì la conseguenza di un vincolo che genera stress cronico per fronteggiare il quale (cfr. Bruner e Marmot, 1999) si ricorre all’alcol, alle sigarette o al comforting food (letteralmente, “cibo consolatorio”) di cui ampiamente tratta Wilkinson (1996).Tra i vincoli che possiamo prendere in considerazione ci sarebbero l’esperienza della povertà e dell’incertezza economica e sociale che graverebbe sulla famiglia (cfr. Graham 1995). Legati a questi vincoli, lo status di prestigio e il potere di cui godrebbero gli individui se è vero che la propensione ad adottare degli stili di vita insalubri (e, cioè, il fare delle scelte auto-distruttive), diminuirebbe spingendosi verso la cima della scale sociale. Come sottolineato da Cardano (2008:127), se sono “innanzitutto i vincoli economici ad imporre un regime alimentare inadeguato, le privazioni che caratterizzano l’esperienza della povertà aggrediscono lo stato di salute degli individui anche lungo un altro itinerario, che chiama in causa i determinanti psico-sociali”. Privazioni e, ad esempio, un regime dietetico inadeguato che si rifletterebbero persino sulle generazioni future in termini di thin-fat baby syndrome, come sottolineato dalla dietologa L. Aphramor (2005).
Due ambiti caldi dell’esistenza: sesso e cibo
Riferendosi a casi che insistono su due ‘ambiti caldi’ della nostra esistenza – il sesso e il cibo – e, nello specifico ai casi emblematici dell’AIDS e dell’obesità, Cardano mette bene in evidenza, anche grazie ad apporti scientifici che vengono da altri ambiti disciplinari e non solo dalla sociologia, come dietro certi interventi, politiche sanitarie e sistemi diagnostici si celino ambiguamente operazioni di colpevolizzazione e stigmatizzazione della vittima/portatrice di disagio/malattia. Il tutto in linea con un potere disciplinare – tipico delle società liberali avanzate – che ha distorto il concetto di empowerment dell’individuo, ormai gravato “dalla responsabilità del proprio autogoverno alla luce di norme di civilizzazione, sorvegliate da un sapere esperto che presiede alla ‘disciplina dei corpi’ e alla ‘biopolitica delle popolazioni’” (Cardano 2008:126). Non solo. La sindrome metabolica innescata dall’esperienza dello stress cronico e che ha le proprie radici nel processo fisiologico noto con i termini di fight or flyresponse (ossia, ‘lotta o scappa’) è riconducibile ad esperienze di relazioni asimmetriche che, nei termini di Goffman (Goffman 1967, trad. it. 1988), “impongono da una parte contegno e dall’altra deferenza e che costringono a quanto il sociologo Freund definisce stress drammaturgico (Freund 1990)[2]. Si tratta, per intenderci, delle esperienze che più comunemente vivono le persone che nella società occupano le posizioni cui competono i minori privilegi e che per questo dispongono di un controllo limitato sulla propria vita e sulle relazioni sociali che la accompagnano” (Cardano 2008: 131).
Tornando all’obesità e all’AIDS (ma, con particolare all’ambito del sesso, potremmo ben riferirci a tutte le malattie sessualmente trasmissibili come la sifilide), la presenza di un legame neurobiologico tra stress cronico e l’obesità (oppure una malattia sessualmente trasmissibile), se da una parte consente di ipotizzare un meccanismo d’impatto che nel corpo evoca alterazioni del sistema neurobiologico; dall’altra, agirebbe attraverso i comportamenti individuali in maniera per nulla riconducibile alla logica della libera scelta, ovvero alla volontaria adozione di stili di vita pericolosi per la salute. Intendiamo cioè riferirci a quelle strategie di fronteggiamento dello stress “che individuano nel cibo una – forma ancorché – impropria di automedicazione: Wilkinson parla a questo proposito del già citato “cibo consolatorio”, meno costoso di una serie di sedute psicoanalitiche, ma di certo meno efficace nel mantenere chi vi faccia ricorso in una condizione di buona forma fisica” (Cardano 2008:132). Allo stesso modo si può ipotizzare che il ricorso al sesso – nella modalità della promiscuità sessuale e dell’incontro occasionale non protetto – possa configurarsi nei termini di forme improprie di automedicazione utili a fronteggiare lo stress cronico. Noi aggiungiamo che l’appagamento, in questo caso, consentirebbe nella sua formulazione tipo mordi-e-fuggi, di non escludere nessuno dei vantaggi legati al già citato processo fisiologico del fight or flyresponse sommando a quelli derivanti dalla scarica di tensione conseguente all’aggressività espressa in forma sessuale, i vantaggi legati alla fuga da ogni responsabilità o coinvolgimento sentimentale e morale.
Dal macro al micro
Se i due luoghi teorici poco sopra accennati che possono avere pesanti risvolti non solo etici, bensì clinici e sanitari – il riferimento al corredo genetico e i comportamenti individuali – sono accomunati da un riduzionismo dal quale è opportuno prendere le distanze, viene da chiedersi: in che modo la riflessione sull’intreccio composito di corsi di vita che costituisce il tessuto sociale e, pertanto, l’esercizio dell’”immaginazione sociologica” può aiutarci a comprendere meglio le disuguaglianze di salute e benessere e, possibilmente, intervenire per ridurle? Cardano da una prima indicazione importante: rivolgere la propria attenzione verso i luoghi di vita degli individui “variamente definiti in ragione della scala con la quale si procede alla loro raffigurazione” (2008:133). Così, disponendo queste raffigurazioni lungo un continuum macro-micro possiamo passare dal considerare la collocazione geografica e il profilo politico, istituzionale ed economico dei luoghi di vita per cui si possono distinguere i paesi ricchi (dove la popolazione ha una alta speranza di vita) dai paesi che sono più poveri, la cui popolazione ha una minore speranza di vita alla nascita. Continuando sul versante “macro” una chiave di lettura politico sociale, invece, ci consente di apprezzare la differenza tra quei Paesi in cui il welfare è residuale (come negli Stati Uniti), da quelli in cui il carattere universalistico del sistema di welfare offre maggiori tutele alla salute. Una chiave di lettura più economico-sociale, infine, consentirebbe di fare delle interessanti considerazioni sulla distribuzione del reddito esistendo sufficienti prove a conferma che “i paesi caratterizzati da una distribuzione più egualitaria dei redditi mostrino una maggiore speranza di vita”. Wilkinson (Wilkinson 1996) “interpreta questa relazione ipotizzandone una soggiacente fra distribuzione dei redditi e senso di privazione relativa. Dove la distribuzione dei redditi è più disuguale, più diffuso e intenso è il senso di privazione relativa degli individui. A sentimenti profondi e intensi di privazione relativa corrisponde – per Wilkinson – un indebolimento della coesione sociale, dove la prima e l’ultima coincidono, con segno opposto, sullo stato di salute della popolazione” (Cardano 2008: 134).
Da qui, muovendo verso l’altro estremo del continuum – il micro – potremmo poi apprezzare in una posizione “meso” (ossia tra il macro e il micro), l’utilità di certe analisi ecologiche che indagando sulla relazione tra capitale sociale e salute hanno documentato la sua positività al punto tale che il capitale sociale verrebbe a configurarsi nei termini di uno ‘scudo sociale’ capace di proteggere dalla malattia (cfr. a tal riguardo Turner 2004:16, ma anche Hawe e Shiell, 2000). Ovviamente, oltre agli specifici luoghi di vita è possibile rilevare la “tossicità” dei contesti sociali come i luoghi di lavoro – ai quali ci si può riferire non considerando la specifica azienda od organizzazione – partendo dall’analisi di cosa accade a raggruppamenti di professioni, ossia a insieme di individui occupati in settori lavorativi e luoghi di lavoro relativamente omogenei. Come sottolinea Cardano “in questi casi, forse non è nemmeno il caso di dirlo, la presenza di sostanze tossiche, la configurazione dell’ambiente e ancor più l’organizzazione del lavoro risultano correlati all’incidenza di malattie professionali e di infortuni” (2008:135).
Ma è all’estremo “micro”, del nostro continuum, che sarebbe possibile osservare come l’insieme di ruoli che assumiamo e le esperienze sociali che facciamo incidono sul nostro corpo e, pertanto, condizionano la nostra salute e il nostro benessere. E ciò perché all’analisi dei luoghi di vita, alla riflessione e allo studio sulle caratteristiche degli ‘spazi scenici’ è possibile accostare – adottando una prospettiva che include l’“interazionismo simbolico”, l’approccio drammaturgico all’interazione sociale di E. Goffman e la sociologia del corso di vita (cfr. Wadsworth 1997, Graham 2002, Pearlin et al 2005, ma anche Olagnero, 2004) – l’osservazione diretta (e partecipante, all’occorrenza), al dramma rappresentato nello specifico luogo di vita, soffermandosi sugli attori e sulle loro relazioni sociali. Non si tratta, ovviamente, di stabilire un gerarchia tra approcci (cosa è meglio e cosa è peggio); quanto di stressare l’attenzione sulle possibilità di analisi, studio e d’intervento che il sociologo può esercitare non solo a livello ‘macro’ e ‘meso’, ma anche ‘micro’. Così la qualificazione sociale dei contesti di vita, grazie all’osservazione e alla riflessione sugli attori e le loro esperienze sociali – termine con il quale intendiamo riferirci sia alle relazioni sociali, sia agli eventi di vita – che si manifestano nel tempo, prende in carico anche la dimensione temporale, oltre a quella spaziale di cui si ha conto a partire dall’analisi dei luoghi di vita.
E’, pertanto, la dotazione di strumenti concettuali – che permettono di qualificare i contesti di vita, ossia di comprendere la loro caratterizzazione incrociando le due prospettive di spazio e di tempo – che consente al sociologo di poter adeguatamente intervenire nella situazione promuovendone il cambiamento migliorativo. A tal riguardo, va evidenziato che il ricercatore può non essere interessato agli effetti del suo lavoro se non limitatamente al plauso, all’approvazione che cerca di ottenere dalla comunità scientifica a cui appartiene. Il sociologo applicato e clinico, invece, è estremamente interessato agli effetti del suo lavoro perché ne rappresentano la misura dell’efficacia; e, nel suo modo di operare, direzione e meta – ossia orientamento valoriale e obiettivi – sono fattori imprescindibili già a partire dalla definizione di quel cambiamento che si suppone possa essere ‘migliorativo’. Pertanto, la pluralità di ipotesi, alla base del suo agire, non sono solo esplicative circa la predetta “tossicità” dei contesti spazio-temporali – ossia, i contesti di vita – ma anche orientative al fine di affrontarla, ridurla, contrastarla. L’esperienza professionale, poi, consente di affinare la propria competenza osservativa e operativa (sul valore dell’esperienza per la professione sociologica, v. Piscitelli 2013 e Vaccaro 2018).
Due ‘registri’ attivatori
Focalizzandoci specificatamente sull’attore, Cardano (Cardano 2008) ci ricorda con Goffman (Goffman 1967) che possiamo distinguere due dimensioni dell’esperienza: il luogo della “ribalta” e il luogo del “restroscena”. Nella “ribalta” “ciascuno incontra l’altro”; è qui “dove ego e alter sono reciprocamente presenti, impegnati in specifici rituali d’interazione”. Nel “retroscena”, invece, “il proprio agire sulla ribalta e il proprio sé divengono oggetto di specifica riflessione da parte dell’individuo”. E’ di estrema rilevanza sottolineare che mentre per Goffman “tanto la ribalta quanto il retroscena si configurano come luoghi dell’interazione sociale, nei quali la capacità di agire e la riflessività sono presenti in egual misura”; per Cardano, la “ribalta” sarebbe “il luogo in cui prevale la dimensione della capacità dell’agire e il retroscena come una forma di esperienza (e non già come un’area dello spazio sociale) dove prevale la riflessività, il proprio agire diviene oggetto d’osservazione, gli individui raccontandosi il proprio agire passato e prefigurando il proprio agire futuro, procedono alla costruzione narrativa del proprio sé (cfr. Shafer 1980)” (2008:136). Mondo esteriore e mondo interiore, quindi, dove quest’ultimo chiama in causa ancora direttamente il corpo: dov’altro e con cos’altro potrebbe aver luogo, infatti, detta ‘riflessività’?
Se è neurofisiologico il meccanismo che traduce le esperienze del soggetto, fatte di relazioni e di eventi, nell’idioma corporeo della salute e della malattia; cosa attiva questo meccanismo? E, magari, lo fa al punto tale da creare una condizione di stress cronico che, a sua volta, provoca la malattia? Fondamentalmente, gli attivatori sarebbero due processi: uno di tipo emozionale e l’altro cognitivo, attivi – seppur in diversa misura, ci ricorda Cardano – su entrambe le dimensioni succitate dell’esperienza: la “ribalta” e il “retroscena” (a loro volta, come il lettore avrà ben capito, questi processi sono innescati da eventi di vita stressanti – si pensi a un lutto o una separazione – o da relazioni sociali favorenti una condizione di stress cronico). E, anche qui, la conoscenza sociologica avrebbe molto da offrire per giungere alla messa in atto di un intervento ottimale.
Con riferimento al registro emotivo, sappiamo che sono le esperienze spiacevoli (v. Freund 1982 e 1990) a innescare una condizione di stress cronico. Queste sono caratterizzate, fondamentalmente, dalla percezione di essere rifiutati, sottomessi, offesi, umiliati, impotenti dinanzi agli eventi e hanno in comune la caratteristica di minare l’autostima – più frequentemente e con maggiore intensità – di chi occupa una posizione sociale di minor prestigio e potere. Sarebbe quello che Hochschild (Hochschild. 1983), chiama ‘scudo di status’ a tutelare l’autostima di coloro che occupano delle posizioni di maggiore prestigio e potere in ragione della classe sociale d’appartenenza, dell’etnia e del genere. Prestigio e potere si riferiscono, rispettivamente, alle opportunità di partecipazione e alle risorse di controllo di cui dispone una persona, ponendosi così alla radice di quella che è stata definita la ‘sindrome di status’ (o status syndrome, cfr Marmot 2004). Più prestigio e potere, ossia il poter contare sulla solidità del proprio ‘scudo di status’ consente di mettersi al riparo dal carico di stress drammaturgico con cui fare i conti sia nei rituali d’interazione sulla “ribalta”; sia nelle relazioni che hanno luogo intorno al ‘palcoscenico’ o nel suo “retroscena”. In particolare, è qui che l’impatto emotivo delle relazioni che hanno luogo sulla “ribalta” può essere particolarmente insidioso per la salute e il benessere proprio minando l’autostima nel mentre la persona riflette sul proprio agire: “Ripensando al proprio agire, ricostruendo le sequenze di una narrazione che mette capo alla costruzione della propria identità, la percezione di sé come di una persona cui la società attribuisce uno status inferiore, si può facilmente trasformare nella penosa convinzione di essere una persona inferiore” (Cardano 2008:137).
Con riferimento, invece, al registro cognitivo appare centrale un assunto teorico: “Lo scambio sociale è governato da una sorta di ‘grammatica elementare’ impressa nella mente umana, la ‘grammatica della reciprocità e dell’equità’” (Cardano 2008:138). Lo scambio sociale non può, ovviamente, prescindere dal ruolo acquisito ed esercitato dalla persona; e, in riferimento al quale, sono posti obblighi e diritti per cui in ragione dell’impegno profuso sono attese delle ricompense. L’esperienza di relazioni inique, ossia di situazioni di palesata violazione della ‘norma’ di reciprocità o di percezione di uno squilibrio tra sforzi e ricompense affligge le persone, genera sofferenza e, come osservato da Sietgrist (1986, 2000) “produce un deterioramento del sistema di autoregolazione neurobiologica, innescano lo stress cronico” (Cardano, 2008:138). E’ nel “retroscena”, che la riflessione-bilancio tra impegno e ricompense può aprire la strada a detto processo di deterioramento e sul piano della salute, della condizione di benessere della persona, l’esito può essere molto sfavorevole se una percezione di iniquità si sovrappone ad un esperienza emotiva spiacevole sia nella “ribalta”, ossia nel corso di rituali d’interazione; sia nel “retroscena”, nel corso di quella particolare interazione che la persona intrattiene con se stessa soprattutto si strutturano e/o si radicano convinzioni penose di sé.
Conclusioni provvisorie: quale spazio per l’azione sociale?
Lo stato di salute e di benessere è, per quanto sopra sinteticamente esposto, legato alla posizione sociale degli individui attraverso meccanismi che sarebbero in parte sociali e in parte biologici. Meccanismi che chiamano in causa il corpo, la corporeità del soggetto. La focalizzazione su questi meccanismi implica che l’intervento sociologico efficace ed eticamente ispirato si configuri in termini di un impegno a rimuovere o, quantomeno, a ridurre/incidere sui fattori che generano stress cronico e malessere: squilibri, iniquità, abusi di potere, vulnerabilità, blocchi/ostacoli alla partecipazione, scarsità o privazione di risorse di controllo e di capacità d’influenza. Dal momento che detti fattori sono espressione della particolare struttura sociale nella quale si muove anche il portatore di disagio, di sofferenza (potenzialmente in grado di causare malessere, malattia), il solo porsi accanto al soggetto (o accingersi al suo capezzale!) sostenendolo con attività che amplino la sua consapevolezza, la sua resilienza e tollerabilità al male di vivere sarebbe un intervento ‘monco’. In altre parole, il “sociologo clinico” non può limitarsi a mettere in pratica delle manovre correttive che riguardino solo il senso della capacitazione, ossia dell’empowerment, dei cittadini, già distorto in termini di una loro iper-responsabilizzazione, così come è tipico delle cosiddette società liberali avanzate. Il “sociologo clinico” non può che porsi e confrontarsi, con chi è afflitto e sofferente, nel cercare una risposta alla domanda: quale spazio, quali prospettive per l’’azione sociale’?
Collocandosi dall’angolo di visuale degli attori coinvolti nel disagio, il sociologo clinico prende le distanze dall’ideologismo generico che ha caratterizzato tanta parte delle scienze sociali negli scorsi decenni (cfr. Massimo Corsale 2010). Non si tratta più di indugiare, immersi nel vortice delle proprie passioni intellettuali; tanto meno di restare innamorati per un particolare modello o per una particolare ‘tecnica’ di movimento reale nella storia dell’uomo. Certe passioni ed innamoramenti hanno, tra l’altro, il grosso difetto di far perdere di vista, concretamente, i propri obiettivi. Si tratta, piuttosto, di recuperare il valore dello scopo di una progettualità condivisa e delle proprie azioni a cui faccia da riscontro un riconoscimento istituzionale che potrebbe manifestarsi nei termini di una negazione di ciò che certe istituzioni tuttora sono.
Infine, abbiamo già avuto modo di evidenziare (si v. Piscitelli, 2020) la fecondità della prospettiva di approccio ai problemi sin qui delineata – che è simbolica e incentrata prevalentemente sull’”interazionismo simbolico” e sul “metodo drammaturgico” di Goffman – non solo come mezzo euristico imprescindibile per il “sociologo clinico” ma anche perché suggerisce una dotazione strumentale che dovrebbe essere oggetto di formazione per gli studenti di sociologia, soprattutto se orientati alla professione extra-accademica, utile per la co-costruzione del setting.
[1] Ph.D. in politiche sociali per lo sviluppo locale, sociologo clinico e counselor socio-gestaltico, coordinatore attività del LAB-SPAC, Laboratorio di Sociologia Pratica, Applicata e Clinica (www.sociologiaclinica.it)
[2]Corsivo nostro.
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- Vagero D. (1991), “Inequality in health. Some theoretical and empirical problems”, in Social Science & Medicine, 32 (4), pp. 367-371;
- Wadsworth M.E. (1997), “Healthinequalities in the life courseperspectives”, in Sociol Science & Medicine, 44 (6), pp.859-869;
- Wilkinson R.G (1996), Unhealthy Societies. The Affliction of Inequality, Routledge, London;
[…] tal senso, la “Sociologia Applicata” e la “Sociologia Clinica“ implicano: la prima, l’impiego di sociologi come ricercatori e consulenti che producano e […]
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