di ANTONIO SPOSITO
Ulrich Beck (sociologo tedesco) con l’espressione *“società del rischio” ha inteso definire la società contemporanea postmoderna (o tardo-moderna), caratterizzata dalla necessità di governare l’insicurezza e l’incertezza, generate dalla modernizzazione e dalla globalizzazione.
La società “liquida” dove tutto è in continuo divenire, simultaneo, veloce, produce negli individui un costante senso di precarietà esistenziale, come se il pericolo fosse sempre incombente. La diffusione della paura fa nascere il “bisogno di sicurezza”, divenuto l’obiettivo sociale più importante, il quale esige poi che qualcuno lo soddisfi a qualunque costo.
Il “bisogno di sicurezza”, collocato al II° livello della “Piramide dei bisogni” di Maslow, sovrasta quelli più alti, si impossessa in maniera ossessiva della nostra esistenza, la governa, assorbe energie e attenzione, si accomoda in cima alla gerarchia prendendo il posto della libertà.
Beck sostiene, in generale, che il pericolo e la paura sono contagiosi, coinvolgono in maniera emotiva, totalizzante e distruttiva gran parte degli individui percipienti, qualunque sia la classe sociale di appartenenza, il grado di istruzione, il ruolo lavorativo o politico-amministrativo.
La differenza tra “rischio percepito” (come evento catastrofico anticipato) e “rischio reale”, sta nell’incapacità dell’opinione pubblica di ragionare sui dati cedendo all’emotività, all’irrazionalità, causate e fomentate non solo da mass-media manipolatori e “costruttori” di realtà, ma anche dall’incapacità della stessa classe politica, affetta dal virus del “sensazionalismo”.
E’ vero, i virus valicano i confini, sono inarrestabili, invisibili, subdoli, ci rendono indifesi, soprattutto quando non sono conosciuti e non esistono ancora vaccini per contrastarli, tuttavia l’autentico pericolo non è il Coronavirus ma la paura, che nel diffondersi attraverso il tam tam mediatico ripetitivo e insistente, crea una sorta di comunità mondiale di condivisione.
La paura collettiva causa *“sociosi” di massa, la quale a sua volta conferma e rafforza la paura stessa, una sorta di circolo vizioso (definibile come co-causazione circolare). Il cittadino in preda al panico sarà grato a chi gli offrirà sicurezza, accetterà di buon grado di essere osservato, scansionato, investigato, tenderà a cedere i propri diritti, a de-responsabilizzarsi ricercando un “duce” che si prenderà “cura” di lui.
Vivere in una condizione di perenne allerta, originata da una ipotetica prossima catastrofe virtuale, dà vita alla “presentificazione del tempo”, alla paura del futuro che produce “ansia anticipatoria” collettiva. Siamo di fronte ad una vera e propria “crisi della presenza” (citando l’antropologo Ernesto De Martino) globalizzata e trasversale, ci sentiamo sempre più minacciati nel nostro “esser-ci”.
A parere di Beck, il consenso al controllo si è ancor più accentuato dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, che ha introdotto il costante timore di catastrofi virtuali come caratteristica inequivocabile del rischio contemporaneo. Il crollo delle Torri Gemelle ha assunto così un valore simbolico che riflette, al contempo, sia l’inefficacia dei sistemi difensivi finanche della prima potenza mondiale, ossia, gli Stati Uniti (se non sono stati capaci di difendersi da un evento del genere figuriamoci gli altri Stati), sia la traslazione nella realtà dei format cinematografici americani di notevole successo, concernenti scenari apocalittici di distruzione.
La catastrofe ha perso, quindi, la dimensione immaginaria vissuta nei film, divenendo una dimensione concreta, reale, globale, che necessita di risposte politiche su scala planetaria. L’establishment politico, a sua volta, nel rispondere alle sollecitazioni sempre più emotive dell’opinione pubblica, dettate principalmente attraverso i new media (in particolar modo i “social network”), ha perso il suo ruolo di guida razionale e illuminata della società, interessato esclusivamente alla ricerca del consenso populista al fine di riprodursi al potere.
Una democrazia liberale, allorché governanti e buona parte dei cittadini cominciano a condividere un pensiero unico che li accomuna, nel rinunciare al pluralismo e alla mediazione dei “corpi intermedi”, diviene, di fatto, una dittatura camuffata, laddove la “maggioranza” non presumendo più il legittimo dissenso di una “minoranza” la denigra riducendola al silenzio. Le dittature si caratterizzano anche per la capacita di inoculare e diffondere la paura, immaginaria o reale che sia, la quale rende auspicabili restrizioni e forme di controllo ritenute inconciliabili con i principi delle democrazie liberali.
L’oltrepassamento della soglia del non rispetto dei diritti fondamentali, sanciti nel 1948 dalla “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”, che ha condotto nell’epoca del Coronavirus all’attivazione in certuni Paesi di misure preventive e di controllo eccessivamente restrittive rispetto ai dati relativi al contagio e alla letalità, costituisce un precedente pericoloso mai giustificabile. Ogni qualvolta si valica tale limite nei Paesi democratici, il ripristino delle condizioni iniziali è sempre delicato.
I mezzi di comunicazioni di massa digitali e delle televisioni satellitari consentono la “totalizzazione del controllo”. Basti pensare che in Cina (che non è una democrazia liberale) viene utilizzata “WeChat” (l’equivalente di WhatsApp), la quale consente, attraverso l’accettazione obbligatoria di un codice, il controllo da parte delle forze di polizia di tutti gli spostamenti effettuati (anche da una camera all’altra della stessa abitazione) da cittadini cinesi e stranieri contagiati e non dal Coronavirus.
Le democrazie liberali, sempre in nome della “sicurezza”, si faranno ingolosire dalla possibilità di controllare i propri cittadini in maniera così totalizzante?
Il Coronavirus fa prendere coscienza, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che nelle democrazie liberali avanzate, ormai è in fase di destrutturazione uno dei più fulgidi valori che ha contraddistinto le cosiddette Rivoluzioni Atlantiche (Inglese, Americana, Francese) vinte dalla borghesia: la separazione della “sfera privata” dalla “sfera pubblica”.
È in costruzione un nuovo ordine mondiale distopico in cui vince il “Grande Fratello” di Orwell, che tutto osserva e controlla ma non deve essere visto, ne scoperto, dove ormai è possibile, anche grazie ai “social network”, ledere la sacralità della privacy e i diritti della persona senza pagare dazio.
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