DANTE ALIGHIERI: L’UOMO, IL SUO TEMPO E LA SUA OPERA

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di SALVATORE SALATIELLO

Scrivere di Dante Alighieri, nel giorno in cui le istituzioni nazionali celebrano la sua figura, umana ed intellettuale, anima dentro me un fortissimo sentimento di responsabilità e ammirazione, per quel genio artistico ritenuto, senza il timore di sbagliare, una delle più importanti figure della letteratura italiana ed internazionale.

Una prima considerazione, in qualche modo preliminare alla delineazione del personaggio, è la collocazione storica. Ser Durante Alighiero, questo il suo nome nelle scritture medievali, nasce a Firenze nel 1265, una collocazione spazio-temporale di straordinario interesse storico. Siamo nella piena maturazione della Civiltà Comunale, quella formidabile costellazione di Repubbliche autonome di cui Firenze, al pari di tantissime città italiane, specie dell’Italia centrosettentrionale, ne rappresentava l’espressione più alta e compiuta. In questo senso, questo gigante della letteratura italiana, non potrebbe essere compreso senza questo intimo e osmotico rapporto con il proprio tempo.

La Civiltà comunale, segna una differenza radicale con il sistema feudale dell’”alto medioevo”. Il modello codificato dalla dinastia carolingia, fortemente centralizzato sulla figura dell’imperatore e dalla miriade di Castelli sparsi per tutta Europa, viene completamente sovvertito dalle istituzioni cittadine: libere, autonome e, in qualche modo democratiche. Più precisamente, possiamo parlare di oligarchie che, attraverso una complessa macchina organizzativa, trovano la rappresentanza di innumerevoli protagonisti della vita urbanizzata. La città favorisce la nascita di nuove attività economiche, assolutamente sconosciute al mondo alto-medievale. Importanti capitali finanziari si pongono al servizio di una brulicante proliferazione di attività commerciali, produttive e di servizi, più o meno determinati dalla complessità del tessuto economico cittadino.

In questo contesto nascono le “corporazioni”, in molti casi associazioni di arti e mestieri, tese a mettere in rete alcuni interessi particolari, come quelli di mercanti, lanaioli, artigiani e altri organismi caratteristici della nuova Città Stato, l’esatta riproduzione della più antica Polis greca, al netto delle differenze prodotte nel lungo lasso di tempo che separa le une dalle altre. Questa incredibile trasformazione politica e amministrativa dei territori italiani, tuttavia deve convivere con la pesante minaccia del passato. Il ritorno dell’Impero, infatti, incombeva sulla fragile autonomia delle “Repubbliche comunali”, in molti casi determinando anche lotte intestine in grado di far deflagrare le città dall’interno.

Un rapido riferimento alla discesa in Italia di Federico I di Svevia, detto il Barbarossa, può darci un’idea precisa di ciò che stava accadendo nella nostra penisola negli anni immediatamente precedenti alla nascita di Dante. La Lega dei Comuni, infatti, si era già scontrata con le rivendicazioni dell’Imperatore e, nonostante le vittorie riportate, non poteva ignorare il persistere della minaccia che, sul territorio peninsulare italiano, aveva preso forma con il matrimonio tra Enrico VI di Svevia, figlio del Barbarossa e Costanza d’Altavilla, figlia di quel Ruggiero il Normanno che aveva posto sotto il Regno di Napoli tutta l’Italia meridionale che, evidentemente, non era stata pervasa dalle importanti trasformazioni della civiltà comunale e, soltanto in parte, risollevata dalla importante esperienza polico-amministrativa maturata sotto l’Imperatore Federico II.

I Comuni sono divisi tra la loro determinazione all’autonomia e, per così dire, le simpatie per l’Imperatore alternative a quelle per il Papa. In questo contesto, la dicotomia tra Guelfi e Ghibellini che aveva caratterizzato lo scontro tutto tedesco tra i sostenitori delle fazioni contrapposte che aspiravano alla corona imperiale, assunsero in Italia un significato molto particolare. Nelle città come Firenze, lo scontro tra Guelfi e Ghibellini, assunse le forme di una vera e propria guerra civile, tra chi si dichiarava più vicino alle posizioni dell’imperatore e chi, al contrario, si diceva più vicino alle posizioni papali. Una contrapposizione che dovette assumere forme ancora più complesse quando si videro ulteriori divisioni all’interno dei partiti contrapposti come quella tra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri. Qui, tralasciando ulteriori approfondimenti sulla effettiva delineazione delle forze in campo, ci basti capire che, al di là di queste simpatie fra Papa e Imperatore, la posta in gioco era il controllo della città.

In questo perverso scontro tra famiglie, corporazioni, gruppi di interesse, Dante fu certamente coinvolto in quanto profondamente impegnato sul piano politico e amministrativo come uno dei più autorevoli rappresentanti dei Guelfi Bianchi. Per questo motivo, quando i Guelfi Neri presero il controllo della Città di Firenze, Dante dovette subire l’esilio e le persecuzioni che lo portarono lontano dalla sua città natia, in perenne tribolazione, braccato e per questo esule tra le varie città italiane, ultima Ravenna dove riposano ancora oggi le sue spoglie mortali.

Dante è l’impressionante incarnazione del suo tempo ma, nello stesso tempo, il più elevato esempio di intellettuale impegnato nell’emancipazione sociale e civile dell’intero consesso umano. La sua ampia produzione letteraria è, in molti casi, oscurata dalla sua opera più celebre, La Divina Commedia ma, soltanto a scorrere i titoli della sua straripante bibliografia, ci si ritrova al cospetto di un vero gigante, un uomo capace di assorbire tutte le più importanti conquiste del suo tempo e di restituirle attraverso intuizioni geniali, come quelle del Devulgari Eloquentia, opera in latino che però già coglie tutta l’importanza della lingua volgare sul piano della divulgazione.

Sullo stesso piano il Monarchia, in cui che offre una profonda conoscenza dei modelli amministrativi più efficienti con un particolare riferimento alla divisione del potere temporale da quello spirituale. Una ricchezza di questioni, di temi cruciali sul piano storico da cui emerge il profilo di un uomo capace di incarnare quella perfetta figura di umanista che, come dopo di lui Francesco Petrarca, ha anticipato i tempi: umanista prima del rinascimento, per quanto resistano in lui alcuni elementi culturali tipicamente medievali, come quelli afferenti la filosofia Scolastica di Tommaso d’Aquino e la centralità della vita religiosa rispetto a quella più laica del rinascimento italiano.

La sua commovente produzione poetica, inoltre, lo ascrive tra i massimi riferimenti di quel Dolce Stil Novo che, nella produzione poetica toscana, faceva confluire le più antiche tradizioni della Lirica Cortese provenzale e la più raffinata espressione delle sue varianti siciliane. La figura della Donna, tanto gentile e tanto onesta pare, decantata nella raccolta di Sonetti Vita Nova, può addirittura impressionare rispetto al valore salvifico della donna e, per restare sul piano più squisitamente terreno, del ruolo di civilizzatrice che essa assume nel rapporto con l’uomo. Una cruciale revisione dei rapporti sociali destinata ad avere un ruolo fondamentale, non solo rispetto alla poetica dei suoi più prossimi successori, Petrarca e Boccaccio, ma su tutta la cultura italiana dal rinascimento in poi.

La Divina Commedia, dopo aver collocato Dante nel suo tempo e aver dato qualche importante indicazione sulla sua sconfinata produzione letteraria e sulla molteplicità dei suoi interessi, diviene allora più leggibile. La Commedia, successivamente arricchita dall’aggettivo “divina”, può essere considerata il primo grande manuale della coscienza umana. Una coscienza che, certamente, risente ancora delle catalogazioni comportamentali delle Sacre Scritture, specie in riferimento alle ampie agiografie medievali e alle delineazioni del profilo umano, fortemente legate all’ambito religioso ma, questo è evidente, incredibilmente moderne in quanto lucide, accurate, motivate. Sottoposte all’esame critico del ragionamento e delle circostanze stesse in cui i fatti narrati diventano il campo analitico in cui si dipana il profilo personale di ognuno dei suoi defunti interlocutori.

Un meraviglioso prontuario della coscienza umana in cui le dinamiche storiche, politiche, sociali e persino personali sono indagate con meticolosa sensibilità. Dante non si erge a giudice, non cede ai giudizi rancorosi della sua condizione di esule, per cui le interferenze autobiografiche avrebbero potuto intaccare l’esame scrupoloso della coscienza. Certamente la sua profonda fede religiosa lo porta ad assegnare una determinata posizione infernale o purificatrice, come avviene nell’inferno e nel purgatorio ma, parallelamente, le sue domande, le sue attenzioni, che pure trapelano negli spazzi interstiziali dei suoi endecasillabi, rivelano la sensibilità di una figura straordinaria.

Dante è lì per capire. La sua guida nel regno dell’oltre tomba, Virgilio, è forse il garante di questa scrupolosa immersione nel pieghe dell’epopea umana, un modello che incarna il Magisterio stesso della Storia, dove l’espressione “historia magistra vitae” assume il suo significato più laico in quanto interpretazione delle gesta umane alla luce dei fatti che esse determinano nel solco del più ampio destino dei popoli. Certamente la figura di Beatrice che, per i motivi addotti in seno all’opera, si riserva di accompagnare Dante esclusivamente nel Paradiso, deve aver a che fare con la funzione più squisitamente celebrativa della rettitudine. Un modo per restituire una luminosa rappresentazione di chi, secondo l’ingegno dantesco, ha meglio indirizzato le sue volizioni nel solco temporale della nostra storia.

A margine di questo percorso mi sia consentita una breve riflessione sull’attualità dell’opera dantesca. Il soccorso della Commedia, infatti, nella drammaticità di questo momento, si staglia davanti a noi come una luce, forse perché nel mezzo del cammin di nostra vita ci siamo ritrovati un po’ tutti, per una selva oscura, che la dritta via era smarrita. Questa mirabile allegoria del viaggio che, per Dante Alighieri come per ognuno di noi, è anche un viaggio di consapevolezza e di redenzione, oggi ci mostra ancora le nostre fragilità, soprattutto, l’intimo intreccio dei nostri destini.

Questa terribile epidemia, non attenta soltanto al nostro corpo ma, in una qualche misura, insidia le nostre anime, la parte più profonda che ci costituisce come umani. Al di là di questa selva, già si scorge la luce fioca e labile della speranza, quella di redimerci dalla cupidigia e dall’egoismo. L’epidemia di “coronavirus” che oggi richiama tutti noi alla nostra comune umanità, restituisce alla commedia dantesca la sua potente attualità, quella di essere un monito, un avvertimento eternamente attuale. Infondo, tutto il sapere umano, ogni nostra capacità, ogni nostra volontà di essere e di volere si risolve in un anonimo “nulla” quando non riesce a cogliere la forza della solidarietà, dell’aiuto reciproco, del senso stesso della nostra esistenza che, adesso più che mai, è impegnata in una battaglia comune da cui si uscirà più forti di prima solo se riusciremo a far tesoro di quanto sul viadotto della nostra storia umana si è parato innanzi.

Allora, lasciate che mi conceda da questo mio umile contributo alla riscoperta del genio dantesco, chiedendo scusa a quanti sarò apparso presuntuoso o eccessivamente leggero nella delineazione di alcuni tratti del’opera e del personaggio. A chi mi avrà onorato delle sue attenzioni, rivolgo in ogni caso, i miei più sinceri ringraziamenti e l’invito più cordiale a voler accogliere queste poche righe come una sorta di chiamata alla riscoperta di questo immenso riferimento della letteratura mondiale e, più in generale, di questa impareggiabile esperienza umana per quanto a noi ha lasciato in termini di conoscenza e, più ancora la volontà di capire, di continuare a sondare gli sconfinati orizzonti umani, quella volontà di sapere che è la forma più alta e sublime dell’amore per la vita.