VIOLENZA DI GENERE: L’ULTIMA RISORSA DI UOMINI VIGLIACCHI

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di ELISABETTA FESTA

“Ricordo ancora quella sera: avevo il coltello in mano e gridavo a mia moglie “ora ti ammazzo”. La bambina era lì che ci guardava. Eravamo in cucina, e il terrore nei suoi occhi e in quelli di suo fratello non posso dimenticarlo. Poi la loro paura, quando venivano a dormire da me, dopo la separazione, perché la mia violenza poteva esplodere in ogni momento, ed erano botte, urla, piatti rotti”.

Alessandro, come ha fatto a capire che aveva bisogno di aiuto
“Ho sempre pensato di essere nel giusto quando picchiavo e umiliavo tutti. Poi l’anno scorso, quando una sera infuriato ho sbattuto mia figlia contro il portone di casa, ho capito che se non fossi cambiato avrei perso per sempre i miei affetti più cari”.
Ma lei perché si comportava così?
“Rabbioso e iracondo sono stato fin da ragazzo. A casa mia volavano piatti e urla. Sono cresciuto sentendo mio padre gridare a mia madre: “Ora ti mollo un ceffone”. Ma non voglio giustificarmi. Io sono un violento e mio fratello no, eppure abbiamo vissuto le stesse cose. Ho sempre reagito in modo sconsiderato. A 11 anni per una punizione spinsi mia madre contro una poltrona, rompendole una costola. Ma il peggio è arrivato quando mi sono sposato”.
Cosa accadeva?
“Tutto doveva essere fatto come decidevo io. Se mia moglie prendeva un’iniziativa, diventavo brutale. Lanciavo oggetti. Sbattevo i pugni sul tavolo. L’ho presa a schiaffi. La svalutavo in continuazione. Proprio come mio padre aveva fatto con mia madre. In casa tutti avevano paura di me”.
E i suoi figli?
“Il mio rimorso più grande. Nemmeno con loro mi tenevo. Una volta, per strada, strattonai in modo così violento mia figlia di due anni che la gente mi voleva fermare. E a mio figlio, oggi adolescente, ho rotto un oggetto in testa perché non faceva bene i compiti. Per anni non mi hanno parlato. Mia moglie mi ha lasciato quando erano piccoli, ma so che era terrorizzata quando venivano a dormire da me”.
Ma lei non chiedeva perdono, non provava a cambiare?
“Avevo dei rimorsi, ma davo la colpa agli altri. Alla mia ex moglie, ai ragazzi che mi facevano arrabbiare”.
Un padre padrone insomma?
“Forse. Come tanti altri uomini “normali” che ho incontrato qui al centro di ascolto. Convinto, anche in quanto maschio, di avere ragione”.
Ha mai pensato di esser capace di compiere un femminicidio?
“Mi sono fermato in tempo… Purtroppo però ogni volta che ho avuto una nuova relazione ho messo in atto comportamenti violenti. Ho avuto una seconda compagna. Era molto gelosa. Una notte l’ho fatta cadere procurandole una contusione al collo. Naturalmente la storia è finita. Ma io dicevo che era colpa sua…”.
Cosa l’ha spinta a venire al “Cam”? E cioè a curarsi finalmente?
“È stata la mia ex moglie. Mi ha fatto capire che i ragazzi non li avrei più rivisti. Il solo pensiero mi faceva impazzire. Qui però noi non usiamo la parola “curare”. La violenza non è una malattia, è un comportamento. Una scelta. Con i gruppi e i percorsi individuali impariamo a riconoscerla dentro di noi, a controllarla, a modificare le reazioni. Ad esempio smettendo di dare la responsabilità agli altri della nostra aggressività. Ma ci vuole uno sforzo continuo”.
E lei si sente al sicuro?
“Ho sempre paura. Noi ex violenti siamo come gli alcolisti. Sempre a rischio di ricaduta. Io ero un persecutore perché volevo avere ragione a tutti i costi. Oggi ascolto gli altri”.
Lei ha in mano una lettera di sua figlia. Cosa la commuove tanto?
“Piango di gioia e di dolore. Me l’ha scritta dopo l’inizio del mio percorso al “Cam”. Racconta la sofferenza che ho causato a lei e al fratello. Ma dice, anche, che mi vuole bene”.
E suo figlio maschio?
“È chiuso, distante. L’ho picchiato e fatto sentire una nullità. Ma da qualche giorno viene a fare i compiti a casa mia. Una gioia incredibile”.
Se i maschi violenti frequentassero questi centri, si potrebbero evitare alcuni femminicidi?
“Sì, ne sono certo. Ho incontrato diversi uomini, qui dentro, che si sono fermati prima di commettere un omicidio”.

Alessandro ha 50 anni e non si vergogna di piangere. “Erano così piccoli…”. Seduto in una stanza colorata del “CAM” (Centro di Ascolto uomini Maltrattanti) di Firenze, mentre stringe tra le mani una lettera della figlia come fosse un oggetto prezioso. Alessandro, alto funzionario di una multinazionale, prova a raccontare cosa c’è nella mente (e nel cuore) di un uomo che terrorizza la moglie, i figli, le persone che dice di amare, così come narra del suo lento percorso di rinascita, attraverso gli incontri con gli operatori del “CAM”, il più famoso centro in Italia per il recupero dei maschi violenti. (“la Repubblica”, 25 Novembre 2016, di Maria Novella De Luca)

Per una maggiore comprensione del fenomeno “violenza di genere” è necessario fare un distinguo linguistico semantico tra e femmicidio e femminicidio. Il primo, utilizzato per la prima volta dalla sociologa e criminologa Diana Russel nel 1992, indica le uccisioni delle donne da parte degli uomini “per il fatto di essere donne”; il secondo, introdotto nel 2004 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, esprime: “La forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”.

Sono numeri impressionanti quelli che raccontano la violenza sulle donne nel nostro Paese: tra il primo agosto 2017 e il 31 luglio 2018 in Italia si sono verificati 120 femmicidi, 92 di questi sono avvenuti in ambito familiare o affettivo per mano del partner, dell’ex partner o di altri congiunti. E’ il tarlo del possesso e della gelosia a spiegare la percentuale più elevata di omicidi di donne (30,3% di quelli familiari), seguiti da quelli scaturiti da conflitti e dissapori quotidiani (24,8%). Nell’ultimo decennio sono stati ben 48.377 i reati di violenza sessuale denunciati, in oltre il 90% dei casi la vittima era una donna. Ma i reati di genere non si esauriscono qui, nei primi otto mesi del 2018 alle 2.977 violenze sessuali denunciate si aggiungono ulteriori 10.204 denunce per maltrattamenti in famiglia, 8.718 per percosse e 8.414 per stalking.

Sulle statistiche pubblicate il Censis sostiene che: “L’unico dato positivo è che nell’ultimo anno tutti questi reati tendono a diminuire, mentre aumentano le donne che si rivolgono alla rete dei centri antiviolenza: 49.152 nel 2017, con 29.227 donne prese in carico dagli stessi centri”.

Il quarto Rapporto Eures sul femmicidio in Italia – pubblicato nel 2016 alla vigilia della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” – indica un forte aumento (+30%) rispetto al 2015 del fenomeno nelle regioni del Nord (da 60 a 78, il 52% del totale) e del Centro (da 20 a 26, il 17,3% del totale), mentre al Sud si registra un calo del 25,8% (da 62 a 46, il 30,7% del totale). A livello regionale nel 2016 il più alto numero di femmicidi si registra in Lombardia (25 vittime), seguono il Veneto (17 femminicidi, in forte aumento rispetto ai 7 casi dell’anno precedente) e la Campania, che ha visto comunque scendere il numero dei casi da 31 a 16. Quarta in graduatoria l’Emilia Romagna con 13 vittime, seguita da Piemonte, Toscana e Lazio con 12 femmicidi ciascuna, regioni caratterizzate da una forte recrudescenza del fenomeno (rispettivamente +50%, +33,3% e +100% tra il 2015 e il 2016).

L’analisi dei femmicidi di coppia evidenzia – sempre secondo l’Eures – una storia di pregresse violenze compiute dall’autore in almeno un quarto dei casi censiti (il 24,2% tra il 2000 e il 2016, che sale al 37,1% nel 2016), che risultano peraltro note a figure esterne alla coppia stessa nel 69% dei casi. Le principali forme di violenza agita sono la violenza fisica (69% dei casi), le violenze psicologiche (39,7%) e gli “atti persecutori”, il cosiddetto stalking (27,3%). Ciò che colpisce tra i femmicidi segnati da violenze pregresse e che nel 44,6% dei casi la vittima aveva denunciato l’autore, senza tuttavia ottenere una “protezione” adeguata. In circa la metà dei casi (il 48,8%) i maltrattamenti subiti dalle vittime di femmicidio avevano un carattere ricorrente.

Nel 2016 si registra un aumento delle vittime anziane di femmicidio (+7,1%), che rappresentano il segmento principale del fenomeno con 45 femmicidi, pari al 30% dei casi totali e il rischio più elevato (5,9). La seconda fascia di età più coinvolta è quella delle 25-34enni (19 vittime, pari al 12,7% e un indice pari a 5,7), vittime prevalenti degli omicidi passionali/del possesso. Seguono le 45-54enni (25 vittime e un indice pari a 5,1), le 35-44enni (22 vittime e 5,0) e le 55-64enni (20 vittime e indice 4,9). Il rischio risulta significativamente inferiore tra le minorenni (2,9 e 14 vittime) e nella fascia 18-24 anni (2,5 e 5 vittime). Coerentemente con la forte incidenza delle vittime anziane, la maggioranza relativa delle donne uccise (il  26,9% del totale nel 2016) risulta essere pensionata; significativa la quota delle disoccupate e delle casalinghe (18,5%), seguite dalle prostitute (5,9%); tra le vittime impegnate in un’attività lavorativa (il 37% del totale), prevalgono le impiegate (11,8%), davanti a colf e badanti (6,7%) e lavoratrici autonome/imprenditrici (6,7%). Questo è lo scenario raccapricciante da cui partire per indagare e conoscere il fenomeno in profondità.

Il sociologo francese Pierre Bourdieu sostiene che il dominio maschile sulle donne è la più antica e duratura forma di oppressione esistente. E così, a partire dalle prime società di cacciatori/raccoglitori – per usare un termine caro all’Antropologia – in prevalenza patriarcali, le donne sono state considerate inferiori agli uomini a causa di caratteristiche naturali quali: potenza muscolare, aggressività, competitività.

La violenza sulle donne è un fenomeno che si perde quindi nella notte dei tempi, espressione di una cultura che nonostante il femminismo, l’emancipazione, liberazione, pari dignità e pari opportunità, continua a considerare la donna proprietà privata del maschio, una “cosa” che gli appartiene, sulla quale può esercitare un potere e un diritto assoluti. E’ proprio questo paradigma culturale, questo assioma che bisogna smantellare.

Alle donne gli esperti raccomandano di dubitare del proprio compagno al primo primo schiaffo, di denunciare, di proteggersi. Il tema cruciale è mettere l’uomo (maschio) al centro della questione per tentare di recuperarlo. La testimonianza di Alessandro, che ha chiesto aiuto con coraggio, dimostra che è possibile riabilitarsi.

E’ il sistema sociale nel suo insieme che deve affrontare la spinosa questione. Charles Horton Cooley (uno dei maestri del pensiero sociologico) sostiene che nella famiglia – definita gruppo primario – si sviluppa la personalità di ognuno, cui va aggiunto un ulteriore “agente socializzatore”: la scuola (seconda istituzione educativa), che ha il dovere di insegnare alle nuove generazioni il rispetto della diversità di genere.

Sarebbe una grande rivoluzione sociale e culturale.

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