di ELISABETTA FESTA
Nel 1920 moriva il grande scienziato sociale Max Weber, nato nel 1864, stroncato dall’epidemia d’influenza spagnola, fatto, questo, che lo ricollega al nostro presente caratterizzato dalla pandemia Coronavirus.
Lasciava un mondo sopravvissuto alla carneficina della I° Guerra Mondiale, appena uscito dalla controversa Conferenza di Pace di Versailles del 1919, cui Weber stesso partecipò come delegato della Germania.
Le riflessioni di Weber continuano a esercitare un’influenza profonda sul pensiero sociale contemporaneo. Egli si occupò di importanti questioni sociologiche, in particolare di quella che metaforicamente definì “gabbia d’acciaio”, riferita alle costrizioni provenienti dall’economia capitalistica e dalla burocrazia, le quali, insieme alla sfera pubblica, ci obbligano ad osservare regole, norme e convenzioni che rendono la nostra società più “repressiva” rispetto a quelle premoderne, caratterizzata dall’alienazione derivante dal lavoro e dalle malattie psicologiche, indotte dalla inibizione di pulsioni e istinti.
Dunque, siamo tutti intrappolati in una “gabbia d’acciaio” impalpabile. La “razionalizzazione” dell’organizzazione delle società occidentali tardo-moderne impone l’efficienza e la riduzione dei margini di errore. La “razionalizzazione” diviene così il marchio distintivo del processo storico che investe e modifica gli ordinamenti sociali, espungendo i fattori irrazionali, come ad esempio, i sentimenti.
Weber afferma: “Invece del vecchio coordinatore che è mosso da simpatia, favore, grazia e gratitudine, la cultura moderna ha bisogno per mantenere le sue sovrastrutture, del sostegno dell’emotivamente distaccato e rigoroso esperto professionale. L’aspetto negativo della “razionalizzazione” è proprio la spersonalizzazione degli individui per le esigenze della società.
Dopo cento anni il suo pensiero è più attuale che mai, visto che oggi si parla, nel tentativo di restituire un ruolo centrale alla dimensione etica, di “sburocratizzazione”, di “semplificazione”, di “umanizzazione”.
Weber soffrì per lunghi periodi di acute depressioni, tanto da dover lasciare l’insegnamento accademico per alcune stagioni. In altri periodi fu talmente prolifico da sembrare maniacale. Sono caratteristiche che lo avvicinano idealmente alla nostra epoca, in cui siamo attanagliati nelle maglie dure del “progresso” e della tecnologie che attentano quotidianamente alle nostre identità individuali e collettive.