di ANTONIO SPOSITO
Mario Mastropaolo, psicologo e uomo di notevolissima cultura, mio docente di Psicologia Generale alla facoltà di sociologia dell’Università Federico II di Napoli (oggi denominata Dipartimento di Scienze Sociali), già negli anni ’80 del Novecento, affermava in senso critico che gli innumerevoli indirizzi e i diversi approcci previsti dalla scienze psicologiche frantumano l’essere umano classificandolo e imprigionandolo in categorie cliniche. L’unica verità – sosteneva Mastropaolo – è ciò che egli amava definire “la visione unitaria dell’essere umano”.
La Psicologia secondo l’etimo greco (da Psiché, ‘anima’, ‘soffio’ e Logos, ‘discorso’, ‘principio razionale’) è appunto la “scienza dell’anima”. La Psiche è un concetto astratto che definisce l’unicità dell’essere umano, “essenza” immateriale che si identifica con quel soffio, il quale in quanto soggetto non è oggettivabile e senza oggettività non esiste scienza.
Al di là di alcuni costrutti teoretici che possono fungere da griglia orientativa, un altro dei motivi per cui la Psicologia non può essere considerata una scienza è dato dal fatto che non è dimostrabile l’esistenza del rapporto di causa-effetto tra gli interventi terapeutici (le psicoterapie che applicano metodologie appartenenti ai più svariati indirizzi) e gli esiti provocati. Questo perché le variabili intervenienti (definite anche variabili di disturbo) – così denominate perché inficiano il rapporto tra variabile indipendente (l’intervento terapeutico) e variabile dipendente (effetti dell’intervento) – non sono isolabili e controllabili.
Ad esempio, il risultato di una psicoterapia piuttosto che dalle metodologie utilizzate può essere generato da fattori (intesi come variabili intervenienti) che appartengono alla dotazione umana soggettiva e relazionale, quali la personalità del terapeuta, la connessione particolarmente empatica tra terapeuta ed assistito o dal fatto che l’assistito si senta compreso, accolto, contenuto da qualcuno che se ne “prende cura”.
Pertanto, alla luce di quanto esplicato, se l’efficacia o meno dell’intervento terapeutico viene attribuita soltanto alla correlazione (intesa come rapporto causa-effetto) tra metodologie ed esiti provocati, allora è più che probabile che siamo al cospetto di una variabile spuria (termine che induce ad ignorare l’influenza dei veri “fattori causali”), la quale individua nei “fattori secondari” (la dotazione umana soggettiva e relazionale) l’agente causativo reale. Di conseguenza, per non incorrere in Biases (distorsioni valutative), quando si esaminano gli effetti inerenti ad un intervento psicoterapico, occorre prestare attenzione alla “validità interna” (reale isolabilità e controllo delle variabili intervenienti) e alla “validità esterna” (generalizzazione dei risultati e loro applicabilità). Ciò determina un totale ripensamento dei fondamenti epistemologici della psicologia e della loro applicabilità.
Senza voler disconoscere che in alcuni casi le psicoterapie apportano benefici dovuti soprattutto ai “fattori secondari” di cui sopra, per corroborare la tesi che la Psicologia è una non-scienza, cito l’esperimento effettuato nel 1973 alla Stanford University dallo psicologo David Rosenhan, atto a verificare la validità delle diagnosi psichiatriche. Il suo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Science, con il titolo “On being sane in insane places” (“Sull’essere sani di mente in luoghi folli“), è considerato una delle più importanti critiche alla diagnostica nel campo della psichiatria che ne evidenzia la fallacia.
L’esperimento prevedeva l’inviò in segreto a vari istituti psichiatrici di finti pazienti selezionati per occupazione, età e sesso, che simulavano disturbi mentali, i quali costituivano un gruppo eterogeneo. Vi facevano parte uno studente ventenne diplomato in psicologia, tre psicologi, un pediatra, uno psichiatra, un pittore e una casalinga, tutti senza alcuna pregressa diagnosi di malattia mentale (in totale 8, compreso lo stesso Rosenhan).
Gli pseudopazienti, onde evitare di essere classificati a vita come soggetti psichiatrici, utilizzarono pseudonimi. Al di là della falsificazione di nomi e dettagli sull’occupazione, le altre informazioni biografiche e anamnestiche erano reali (rapporti con i genitori, i fratelli, il coniuge e i figli, gli amici al lavoro e a scuola). Per essere ammessi in reparto, durante l’accertamento psichiatrico iniziale, simularono di avere allucinazioni uditive con voci che pronunciavano le parole “vuoto”, “da riempire”, “tonfo”. La scelta di tali sintomi fu determinata dall’assenza in letteratura scientifica di un unico criterio definitorio di psicosi esistenziali. Non fu dichiarato nessun altro sintomo correlato. Una volta ricoverati gli pseudopazienti agivano “normalmente”, riferendo di sentirsi bene e che le voci erano scomparse. Le documentazioni cliniche acquisite dopo l’esperimento li descrivevano come soggetti bonari e collaborativi.
Gli ospedali psichiatrici furono scelti per tipologie strutturali e distribuzione geografica, in modo da riflettere la reale condizione degli Stati Uniti. Comprendevano ospedali pubblici malmessi e sottofinanziati in aree rurali, ospedali cittadini condotti da università con eccellenti reputazioni, costosi ospedali privati. La permanenza in ricovero variava da 7 a 52 giorni, con una media di 19 giorni. Sebbene gli pseudopazienti denunciarono sintomi identici, ai 7 ricoverati negli ospedali pubblici fu attribuita una diagnosi di schizofrenia, al ricoverato nell’ospedale privato fu consegnata la diagnosi di psicosi maniaco-depressiva. La diversità delle diagnosi, associata al fatto che 7 pseudopazienti furono dimessi con una diagnosi di “schizofrenia in remissione”, indussero Rosenhan a ritenerli elementi probanti che dimostravano come dei soggetti sani erano stati classificati infermi mentali.
Nonostante gli operatori sanitari producessero costantemente notazioni sul comportamento degli pseudopazienti nessuno di questi fu riconosciuto come impostore, mentre paradossalmente gli altri pazienti ricoverati con sintomi psichiatrici cominciarono a nutrire sospetti. Infatti, nelle prime tre ospedalizzazioni 35 pazienti psichiatrici su 118 manifestarono il dubbio che gli pseudopazienti non fossero malati, ritenendoli addirittura ricercatori o giornalisti che investigavano sull’ospedale.
Allorquando l’esperimento di Rosenhan fu noto iniziò la seconda fase. Un rinomato ospedale statunitense, certo di non commettere gli stessi errori diagnostici, lo invitò a inviare di nuovo altri pseudopazienti. Il personale sanitario dell’istituto fu avvisato che nei tre mesi successivi uno o più questi si sarebbero presentati in accettazione e di considerare ogni ricoverato come se fosse per l’appunto uno pseudopaziente. Su 193 pazienti arrivati nei tre mesi successivi l’istituto credette di averne identificati 41, altri ventitré furono considerati “sospetti” da almeno uno psichiatra. In realtà, Rosenhan non aveva inviato nessuno, per cui, concluse che qualsiasi processo diagnostico che si presti ad errori così massicci non può essere considerato molto attendibile.
L’esperimento di Rosenhan subì delle critiche fondate sul fatto che le diagnosi mediche dipendono da ciò che riferisce il paziente. L’analogia addotta da alcuni psichiatri a supporto delle critiche, faceva riferimento – a titolo esemplificativo – ad un immaginario paziente che dopo aver bevuto mezzo litro di sangue si presenta al pronto soccorso vomitandolo. E’ presumibile che la diagnosi immediata sarebbe stata di ulcera.
Quest’argomentazione, tuttavia, presenta almeno quattro controsensi:
- Il paziente descritto vomita sangue davanti ai medici, i quali osservano un segnale oggettivo, al contrario degli pseudopazienti di Rosenhan che raccontavano qualcosa di non tangibile;
- Un paziente che vomita sangue mostra una condizione di rischio immediato e grave rispetto a chi invece sente una voce e lo racconta;
- In una situazione di minore emergenza lo staff sanitario di un pronto soccorso eseguirebbe ulteriori esami e accertamenti che porterebbero a escludere l’ulcera e scoprire eventuali simulazioni;
- Se il paziente smettesse di simulare il vomito di sangue rimanendo ricoverato non verrebbe dimesso con la prognosi di “ulcera in remissione”.
Dal punto di vista storico – a conferma della tesi in questione – prima dell’esperimento di Rosenhan vi furono altri casi attinenti, tra cui quello descritto dal commediografo romano Plauto già in una sua commedia risalente al III secolo a.C., dal titolo Menecmi, in cui il personaggio di Menecmo II simula i sintomi della malattia mentale ingannando un medico.
Nel 1887 la giornalista investigativa statunitense Nellie Bly (pseudonimo di Elizabeth Jane Cochran), assunta da Joseph Pulitzer presso il New York World (giornale da lui diretto), condusse una inchiesta sulle condizioni di ricovero nel reparto femminile del New York City Mental Health Hospital, sito a Roosevelt Island a nord-est di Manhattan. La Bly, che finse di avere sintomi psichiatrici, venne internata, rendendosi così testimone delle inumane condizioni vissute dalle pazienti all’interno della struttura. I risultati furono pubblicati nel volume dal titolo Ten Days in a Mad-House (Dieci giorni in una casa di pazzi).
Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del Novecento, lo psicologo statunitense Maurice K. Temerlin dopo aver eseguito anch’egli un esperimento, divulgò degli articoli scientifici contenenti le analisi delle influenze relazionali relative alle diagnosi psichiatriche e alle conseguenti elaborazioni di etichette diagnostiche (classificazioni).
L’abstract relativo all’articolo di Temerlin dal titolo Suggestion effects in psychiatric diagnosis sull’esperimento effettuato, riportato di seguito, fornisce ulteriori delucidazioni sull’argomento: “Al fine di esplorare le influenze interpersonali che potrebbero influenzare la diagnosi psichiatrica, psichiatri, psicologi clinici e studenti laureati in psicologia clinica hanno emesso diagnosi attraverso un’intervista registrata con un uomo normale e sano. Poco prima di ascoltare l’intervista, hanno ascoltato un professionista di alto prestigio (complice dello sperimentatore), il quale afferma che l’individuo sottoposto a diagnosi era ‘un uomo molto interessante che sembrava nevrotico ma che in realtà era piuttosto psicotico’. Questo studio dimostra che la diagnosi psichiatrica può essere considerata come se fosse un processo di etichettatura del comportamento sociale manipolando il contesto interpersonale in cui viene emessa e osservando i cambiamenti nelle etichette diagnostiche applicate a una persona con valore di stimolo standard (‘The Journal of Nervous and Mental Disease’, 1968; 147(4): 349–353; Tratto da PsycINFO Database Record 2016 APA).
Le argomentazioni e documentazioni scientifiche testé riportate dimostrano inequivocabilmente che la Psichiatria e la Psicologia, se considerate soltanto per le classificazioni prodotte e per l’applicabilità delle metodologie, sono opinabili e, pertanto, possono essere rubricate come non-scienze. Ciò che colpisce in modo particolare è che le critiche alle diagnosi psichiatriche e psicologiche provengono innanzitutto dagli specialisti del settore.
In definitiva, la Psicologia, soprattutto la psicoterapia, per il suo essere intuitiva, estemporanea, è più un’arte che una scienza, poiché ad ogni incontro (seduta) spesso occorre ricominciare daccapo modificando, come in un quadro, gli approcci, le forme, i colori o le note in una composizione musicale.