di ANTONIO SPOSITO
“È una profonda ferita per noi vedere la sofferenza e la morte, specialmente quella degli innocenti! Quando vediamo soffrire i bambini è una ferita al cuore: è il mistero del male”. Così parlò Papa Francesco.
Nonostante le parole del Papa, le normative vigenti e gli obblighi morali, alcuni Enti e certune organizzazioni dedite alla raccolta fondi per attività umanitarie, espongono, senza ritegno alcuno, attraverso campagne mediatiche – realizzate principalmente grazie agli spot televisivi – bambini scheletriti e malnutriti o affetti da gravi malattie che li rendono disabili.
Mi sovvien, quindi, chiedere: “È etico diffondere attraverso i “mass media” immagini di bambini così disagiati?” “È proprio necessario far scorrere tali immagini per raggiungere lo scopo?” “Il fine giustifica i mezzi?”
A mio parere, osservando immagini così realistiche, crude, impregnate di dolore – appesantite e aggravate dalla voce melliflua fuori campo che ripete più volte una litania drammatica, persuasiva e suggestionante – ritengo che si è oltrepassato il limite non soltanto etico ma anche quello consentito dalla Carta di Treviso, sfociando, in tal modo, nello sfruttamento e nella strumentalizzazione di minori, al fine di ricavarne donazioni mensili per finanziare la loro assistenza.
Vi è da domandarsi, dunque, che fine abbia fatto il rispetto delle normative menzionate dalla stessa Carta di Treviso, in quanto protocollo firmato il 5 ottobre 1990 dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, l’Ordine dei Giornalisti e Telefono Azzurro, che disciplina i rapporti tra infanzia e “mass media” – costituente parte del codice deontologico dei giornalisti italiani – la quale impone l’obbligo di tutelare i minori dall’esposizione mediatica e particolare cautela nel diffondere immagini soprattutto di bambini disabili, feriti o malati.
A conferma di quanto sostenuto, cito, a mo’ di esempio, l’articolo 7 della Carta di Treviso che recita: “Nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona”. Un obbligo normativo e morale sempre valido.
In aggiunta a ciò, il 20 novembre 2019 è ricorso il trentesimo anniversario della Convenzione delle Nazioni Unite sui “diritti del fanciullo” (Uncrc), approvata nel 1989, in cui i bambini sono considerati non più come oggetti passivi da assistere, ma come persone attive portatrici di “dignità”, la stessa violata dagli spot citati.
Pur se rivestito di generosità – agita sotto forma di aiuti umanitari e solidarietà internazionale – l’utilizzo indiscriminato da parte di organizzazioni onlus e no-profit di immagini apparentemente innocue che platealizzano il dolore dei bambini denutriti con lo stomaco gonfio o dei bambini malati con lo sguardo perso nel vuoto, costituisce, comunque, una forma di violenza finalizzata a racimolare risorse economiche.
Queste stesse organizzazioni si difendono dalle accuse di speculare sulla sofferenza dei bambini, adducendo in modo enfatico il fine umanitario e razionalizzando il principio che “il fine giustifica i mezzi”. Esse sono a conoscenza che la visione di immagini brutali – diffuse attraverso un format comunicativo che propaga il grido di dolore di bambini bisognosi di cure, ostentante condizioni di disagio estremo – tocca le coscienze innalzando l’emotività dell’opinione pubblica commuovendola. Di conseguenza, elargire denaro diviene una forma di reazione sdegnata nei confronti di condizioni umane ritenute ingiuste e inaccettabili. Il non farlo causa una sensazione di complicità negativa che produce un senso di colpa.
La stessa opinione pubblica dovrebbe poi responsabilmente richiedere la verifica dei bilanci di codeste associazioni, per appurare se e come il denaro elargito sia stato speso per i fini dichiarati.
Tale approccio comunicativo – definibile “marketing sociale” di tipo essenzialmente emozionale – rientra nella cosiddetta “comunicazione sociale”, la quale attraverso spot radiotelevisivi indirizzati al pubblico di massa, intende promuovere o modificare atteggiamenti e comportamenti collettivi, confluendo così, di fatto, nell’ambito della “comunicazione pubblica”, attuata non soltanto dalle stesse istituzioni pubbliche ma anche da organizzazioni e imprese private.
Questo esiguo o nullo rispetto di tutti i minori sofferenti o meno deve essere assolutamente interrotto. I bambini non possono difendersi da soli dall’utilizzo di immagini improprie che li riguardano, non sanno di essere diventati involontariamente “attori” protagonisti di campagne mediatiche attivate per finalità apparentemente “nobili”.
L’ennesimo interrogativo concerne, quindi, la liceità o meno di trasmettere siffatte immagini che “spettacolarizzano” la sofferenza, mettendo in scena una sorta di “pornografia del dolore” esibito e sbandierato con impudicizia. Immagini che negano la vera intimità, la riservatezza – compagna discreta del dolore stesso – che “vetrinizzano” bambini inconsapevoli, mostrati come merci in esposizione.
Tutto ciò costituisce una mortificazione della dignità di ciascun bambino.
Per tali motivi, ritenendo grave e irresponsabile la decisione di tramettere i suddetti spot, mi chiedo come sia possibile che le principali reti televisive nazionali e locali si prestino alla loro diffusione. Dirigenti, manager di broadcast radiotelevisivi, nonché la classe politica ne dovrebbero rispondere.
Condivido pienamente
E’ molto grave che Organizzazioni come l’ UNICEF o SAVE THE CHILDREN strumentalizzino immagini di infanzia malata o morente avvalendosi della loro veste istituzionale
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