di ELISABETTA FESTA
Se si domandasse agli italiani se essere mafioso sia compatibile con l’essere cristiano, se cioè la mafia, la camorra, la ndrangheta siano conciliabili con la Chiesa, ciascuno degli intervistati risponderebbe con un “no” risoluto, meravigliandosi anche della domanda.
Allo stesso modo, se si formulasse la medesima domanda a mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti, anch’essi resterebbero meravigliati: per loro sarebbe scontato rispondere “sì”, ritenendo non esserci nessuna contraddizione tra credere in Dio, nella Chiesa, e, al contempo, aderire ad una di queste organizzazioni criminali.
Tanto è vero che non si conoscono mafiosi atei (escluso Matteo Messina Denaro) o anticlericali, non ci sono appartenenti alle mafie che non ostentino apertamente la loro fede. Nei loro covi sono state rinvenute numerose bibbie, immagini sacre, statue di santi e scoperti veri e propri altari su cui preti e frati andavano a dire messa e a porgere la comunione a “ricercati” per efferati delitti. I mafiosi si professano naturalmente religiosi, credenti, devoti, pensano di avere un rapporto del tutto particolare e speciale con Dio. Non li sfiora neanche lontanamente la percezione di assoluta incompatibilità tra l’essere dei feroci assassini e ferventi cattolici.
Si narra che un killer di “cosa nostra” ogni volta che gli ordinavano di commettere un omicidio, prima si recava in Chiesa a pregare S. Rosalia affinché lo proteggesse e che l’azione andasse a buon fine, dopo tornava dalla santa per ringraziarla del buon esito. Ugualmente i “pizzini” religiosi di Bernardo Provenzano citavano ininterrottamente Dio, Gesù Cristo e la divina Provvidenza. Anche la parola “Mammasantissima” fa riferimento ad un esponente di primo piano, ossia, il capo.
Da decenni le mafie nostrane dedicano una cura particolare ai simboli e alle pratiche della religione cattolica, l’apice si raggiunge allorché si celebra un funerale. Ciò accade perché nelle aree di più antico radicamento delle cosche il sentimento e la pratica religiosi sono ancora consistenti. I mafiosi pretendono di dimostrare che la mafia è espressione autentica di quelle zone anche attraverso i gesti di devozione dei loro capi verso Dio e degli affiliati nei confronti dei capi stessi. In tal modo, la fede cattolica e i suoi segni più sacri sono piegati e resi strumento di acquisizione di consenso sociale. Nel funerale di un boss mafioso la cornice religiosa viene usata per mostrare il legame con la fede del popolo e per esaltare le gesta del defunto. E’ accaduto così, ad esempio, a Roma, per il funerale di un capo dell’associazione criminale della famiglia “Casamonica”.
Di contro, sono nate negli ultimi anni sensibilità e reazioni in Sicilia, in Campania e Calabria, da parte delle Chiese locali, dei pastori e delle persone oneste, lì dove “cosa nostra”, camorra e ndrangheta esistono da secoli, sono radicate e hanno formato mentalità e ambienti. In Sicilia e nelle regioni del Sud, Vescovi coraggiosi intervengono sia a proposito delle infiltrazioni criminali nelle processioni, sia perché le esequie dei mafiosi si celebrino al di fuori di edifici religiosi importanti e senza concorso di folla.
Questi pastori di anime hanno ben compreso che è riduttivo qualificare le mafie soltanto come criminalità organizzata. Le prime si distinguono dalla seconda perché hanno a che fare con la cultura di un popolo, si sforzano di mettersi in sintonia con i valori dominanti del sentire popolare, ne prendono in prestito i linguaggi, attingono alle medesime simbologie. Questo humus costituisce parte integrante della tradizione cattolica. Certo, la storia delle mafie è purtroppo attraversata anche da storie personali di preti e di religiosi accondiscendenti nei confronti dei mafiosi.
A partire dalle ormai famose parole di Papa Giovanni Paolo II, pronunciate il 9 maggio 1993 ad Agrigento: «La nostra fede esige una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità della persona e della convivenza civile», proseguendo con il monito pronunciato a Palermo dello stesso anno da Benedetto XVI che sollecitava i giovani affermando: «Non bisogna cedere alle suggestioni della mafia che è una strada di morte, incompatibile col Vangelo» ed infine citando l’attuale pontefice Francesco, il quale ha ribadito con sdegno a Napoli, nel quartiere emblematico di Scampia, il 21 marzo 2015: «La corruzione puzza», evocando quindi non solo il fetore del sangue versato ma anche il tanfo morale che avvolge quella struttura perversa.
La Chiesa ha giustamente rivendicato la purezza e l’onorabilità delle confessioni religiose che non possono essere accostate a subdole e malvagie pratiche delinquenziali.