di ELISABETTA FESTA
La figura di Cesare Lombroso (1835-1909) dopo più di un secolo è ancora molto dibattuta. Medico di origini veronesi, studioso poliedrico, ha vissuto nell’Ottocento, secolo pervaso da profondo scientismo.
Esponente della “scuola positivista” fu promotore del determinismo biologico, fondò l’antropologia criminale, ossia, l’applicazione della fisiognomica della frenologia alla criminologia.
Più specificatamente egli ravvisò nelle caratteristiche psicofisiche degli autori di reato le cause ultime della loro delinquenza. A parere di Lombroso, il delinquente è tale perché ha subìto un arresto nello sviluppo ontogenetico, e, di conseguenza, presenta gli istinti degli uomini primitivi, i quali fatalmente lo spingono al delitto a causa della sua natura arretrata e ferina.
Trattandosi di una tendenza congenita, Lombroso conia l’espressione “delinquente nato”. Le teorie lombrosiane scaturirono dall’osservazione del cranio del brigante calabrese settantenne Giuseppe Villella, il quale presentava una piccola anomalia ossea (fossetta cerebellare mediana o fossetta vermiana), ribattezzata poi fossetta di Lombroso. In tale particolarità, Lombroso riconobbe un tratto atavico, tipico dei primati inferiori.
Egli in quel periodo era già interessato al crimine e aveva cominciato la sua attività di collezionista e catalogatore di reperti. Tratti atavici erano secondo lui ravvisabili anche in altre caratteristiche somatiche come la testa piccola, la fronte sfuggente, gli zigomi pronunciati e così via. Lombroso giunse alla conclusione che si potesse rilevare la predisposizione al crimine degli individui associando fisiognomicamente la presenza di tratti primigeni all’aggressività, alla comune origine selvatica ed alla capacità delinquenziale.
Negli anni modificò più volte le sue teorie ma non si discostò mai dal profondo determinismo che contraddistinse la sua epoca. Continuò, infatti, a rintracciare le cause del crimine nelle caratteristiche biologiche innate, o, al massimo, nei fattori psicologici o sociali che comunque attecchivano su una congenita predisposizione.
Cesare Lombroso morì a Torino, città dove aveva lavorato, nella quale sorge un museo che porta il suo nome, in cui sono raccolti ed illustrati i suoi studi e le sue ricerche. In occasione del centenario della sua morte il museo è stato rinnovato, ciò ha innescato un’aspra battaglia mediatica e legale. Il comitato “No Lombroso” ne chiese la chiusura, avviando una causa per ottenere degna sepoltura dei resti umani conservati, dai crani presi dal manicomio di Collegno ad altri attribuibili ai briganti meridionali esaminati da Lombroso.
Nell’agosto 2018 la Corte di Cassazione stabilì che quei crani dovessero rimanere a Torino ma il comitato annunciò di voler portare il caso alle corti internazionali. Una nuova polemica si aprì nel settembre dello stesso anno per l’organizzazione di una mostra fotografica al Museo del Cinema che ospitò la rassegna “I 1000 volti di Lombroso”, presentata per la prima volta volta al pubblico dallo stesso scienziato. Una selezione di fotografie appartenenti all’Archivio del Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” dell’Università di Torino sono state restaurate in parte per l’occasione.
Dopo la morte del suo fondatore l’antropologia criminale venne confutata anche dai suoi collaboratori, perché ritenuta oltre che priva di fondamenti scientifici, palesemente e fortemente discriminatoria nei confronti di una fetta di popolazione, finendo nel dimenticatoio ed entrando a far parte delle discipline cosiddette pseudoscientifiche (come, per l’appunto, la fisiognomica e la frenologia).
Considerato prima un genio dai suoi contemporanei, successivamente diventò per la scienza un capro espiatorio. In ogni caso, Lombroso fa innegabilmente parte della storia della criminologia, il suo merito è aver stimolato lo studio dei fenomeni delinquenziali indagandoli in modo sistematico.
Solo di recente il lavoro degli storici ha offerto un ritratto, spesso stereotipato, più complesso e sfumato del suo contributo, senza per questo riabilitarne le teorie ma restituendole al proprio contesto stoico e culturale. (Fonte: igeacps.it Ester Belfatto)